Contare nom basta. Senza diritti, è solo controllo.
Il 26 gennaio 2026 prende l’avvio la rilevazione delle persone senza dimora, promossa da ISTAT insieme a fio.PSD. Un censimento però non è una politica pubblica. Contare, senza assumersi responsabilità, non è un’attività neutra. È una scelta politica precisa: fermarsi alla conoscenza senza trasformarla in obbligo.
In questi anni abbiamo visto troppe volte come funziona: i dati arrivano, ma le politiche restano le stesse. Emergenze al posto di soluzioni. Progetti al posto di diritti. Masoprattutto, decoro al posto di giustizia urbana.
L’espressione “decoro urbano” è diventata la parola chiave per non dire assolutamente niente. Non dice “casa”, dice “ordine”. Non dice “povertà strutturale”, dice “degrado”. Non dice “responsabilità pubblica”, dice “comportamenti da correggere”. Dentro orrenda espressione, la persona senza dimora smette di essere cittadina e diventa solo un corpo fuori posto, un problema da spostare, non una vita da sostenere.
Usare i dati del censimento per rafforzare politiche di decoro (ordinanze, allontanamenti, spostamenti forzati) significa tradire il senso stesso della rilevazione.
Quando nel dibattito pubblico invece ci si concentra sul termine decoro siate certi che il problema povertà non sarà risolto. Anzi, lo si renderà un problema intermittente, invisibile, mobile allontanandolo dallo sguardo, ma non dalla città.
I dati hanno valore solo se producono:
politiche abitative strutturali
investimenti stabili e continuativi
responsabilità chiare tra Stato, Regioni e Comuni
superamento definitivo della logica emergenziale
Altrimenti, il censimento resta una fotografia utile a chi governa il fastidio, non a chi vuole ridurre la disuguaglianza.
La città non ha bisogno di più decoro.
Ha bisogno di meno ipocrisia e più diritti.
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