La Metro C al Colosseo: quando l’ingegneria diventa alibi e la città smette di educare e mostra la sua ignoranza in purezza.
L’apertura della fermata Colosseo–Fori Imperiali della Metro C di Roma è stata celebrata come un trionfo: un capolavoro ingegneristico scavato sotto uno dei luoghi più complessi del pianeta, la dimostrazione che anche Roma può finalmente coniugare mobilità contemporanea e patrimonio antico. Ma se la si osserva non come opera tecnica isolata, bensì come dispositivo urbano e politico, questa stazione pone una domanda che non può più essere evitata: un’infrastruttura è un successo perché è difficile, o perché migliora davvero la città e la vita di chi la abita?
Il primo nodo riguarda la selezione della storia resa visibile. Gli scavi hanno attraversato una stratificazione urbana complessa: età romana, tardoantica, medievale, moderna, contemporanea. Eppure ciò che viene mostrato è quasi esclusivamente Roma imperiale. Non perché il resto non esista, ma perché è stato giudicato meno degno di essere visto. Gli altri strati vengono documentati e poi rimossi. La città viene ridotta a una sola epoca, trasformata in icona coerente con una narrazione monumentale e turistica. È una scelta culturale precisa, che produce un danno irreversibile: Roma non viene raccontata come processo urbano, ma come immagine congelata.
Questo non è un problema archeologico, è un problema urbanistico. Cancellare strati significa cancellare conflitti, trasformazioni, vita quotidiana. Significa rinunciare a raccontare una città abitata, attraversata, cambiata nel tempo, per restituire un fondale rassicurante e vendibile.
Il secondo nodo riguarda la funzione territoriale della linea. La Metro C viene presentata come riscatto della periferia est, come collegamento finalmente “democratico” tra centro e margini. In realtà, nella sua configurazione attuale, la linea non costruisce centralità, non genera città lungo il percorso, non produce luoghi di scambio. Convoglia flussi da quartieri e comuni esterni — come Monte Compatri — verso il centro monumentale e li rimanda indietro. È un modello estrattivo: la periferia fornisce corpi in movimento, il centro offre consumo simbolico.
Non è policentrismo. È dipendenza infrastrutturale. La metropolitana non diventa infatti strumento di cittadinanza, ma corridoio di adduzione verso un centro sempre meno vissuto e sempre più messo in scena.
Il terzo nodo è forse il più rivelatore: l’assenza totale di dispositivi di accoglienza e mediazione nella stazione Colosseo–Fori Imperiali. In uno dei luoghi più carichi di significato del mondo non esistono infopoint, biglietterie presidiate, uffici di informazione turistica, personale dedicato all’orientamento e alla spiegazione. La storia viene esposta senza linguaggio, senza contesto, senza responsabilità. Le persone attraversano vetrine musealizzate come fondali muti, ridotte a fotografare ciò che non comprendono.
Qui cade anche l’alibi del turismo. Le città che prendono sul serio i visitatori investono nella mediazione culturale. Roma no. Perché in questo modello il turista non è un ospite, ma un flusso da smaltire; il cittadino, semplicemente, non esiste.
A questo punto emerge la questione che più di tutte viene elusa: il costo.
Se il valore principale di questa operazione è ingegneristico, allora la domanda è inevitabile. È legittimo spendere centinaia di milioni di euro per dimostrare di “saper scavare” sotto il Colosseo, mentre la città rimane incapace di spiegare se stessa? E soprattutto, perché di fronte a costi elevati si invoca il rigore economico per altre infrastrutture — come il ponte sullo Stretto — mentre si accetta senza reale dibattito che il solo prolungamento della Metro C fino a Piazza Venezia possa arrivare a costare circa 1 miliardo di euro, all’interno di un investimento complessivo che porterà il costo finale dell’intera linea fino a piazzale Clodio intorno ai 10 miliardi di euro?
La domanda non è ideologica. È urbanistica e politica: qual è il costo sopportabile per un’infrastruttura concepita in questo modo?
Quanto siamo disposti a spendere per un’opera che non costruisce cittadinanza, non educa, non redistribuisce potere urbano, ma rafforza una città-scenografia fondata su flussi, monumentalizzazione e consumo?
Il problema non è la tecnica. Il problema è che la tecnica viene usata come alibi per non discutere il progetto di città. L’ingegneria diventa una foglia di fico che copre l’assenza di una visione sociale, culturale e democratica dello spazio urbano.
E mentre nei sotterranei si realizzano opere faraoniche, scavate con tecnologie d’avanguardia e costi da capitale globale, in superficie, su via dei Fori Imperiali, la città viene trattata con una leggerezza imbarazzante. Vernice delebile, piste ciclabili improvvisate, utilizzate durante la pedonalizzazione come pura scenografia: comparse scampanellanti in un teatrino romano della mobilità, più utile a produrre immagini che a costruire diritti.
Il paradosso finale è tutto qui: Roma scava come una capitale imperiale, ma dipinge come una città provvisoria.
Sotto terra, miliardi. In superficie, vernice e scambi quali “Ma che c’è scritto che non vedo, Giulio Cesare da che?” “Boh, me pare da Norcia”.
Sipario.